Morote Dori Kokyu Ho

Un interessante punto di vista di Federico Severin, yudansha dell’Aikido Origin

Uke mi afferra saldamente l’avambraccio con due mani. E’ forte, molto più di me, ma riesco a mantenere la curvatura a tegatana dell’arto. Rilasso il braccio e la spalla. La mano è poggiata su di un tavolo di cui solamente io conosco l’esistenza; il mignolo aggancia l’energia di uke direttamente dal suo hara, verso il quale è puntato. L’anca inizia una lieve rotazione verso l’interno, trasmettendo il moto alla mano che inizia a sua volta a ruotare sul tavolo, come fissata da un perno centrale. Il movimento è minimo, quasi invisibile, ma diretto verso la zona di squilibrio di uke. Ecco, sento il suo equilibrio vacillare, è il momento! Devo agire prima che recuperi stabilità.

Abbasso il gomito sotto il livello del polso mentre approccio l’entrata. Il kokyu inizia a portare le braccia del mio avversario verso l’esterno, dove non hanno forza, dove non mi possono nuocere. Una rotazione dell’anca, ancora verso l’interno ma stavolta più decisa, spinge il mio gomito in avanti e verso l’alto. Anca e gomito si muovono all’unisono, come collegati da qualcosa di solido. Anche la mano si muove allo stesso tempo, sollevando una fittizia bottiglia d’acqua come a volerla bere a canna. Un gesto semplice e quotidiano ma che mi permette di spingere una volta per tutte i gomiti di uke verso l’esterno, senza sforzo, e di entrare nella sua guardia. Lo sento inarcarsi e perdere il centro della tecnica, mentre io prendo il suo posto. Quando l’anca completa la rotazione sono accanto a lui, con il suo stesso hamni. Sono abbastanza avanti a lui da controllarlo, ma non tanto da perdere il contatto. Le anche si toccano o quasi. Il tricipite poggia sul suo petto: è la garanzia che il proseguimento della tecnica sarà efficace. Lui è squilibrato, inarcato, regge con fatica la presa al mio braccio, ma deve resistere se non vuole essere colpito.

Inizio a ruotare ancora, stavolta verso l’esterno. Mi muovo come se un filo invisibile tirasse indietro il gomito poggiato sul petto del mio avversario. La rotazione parte tutta dall’anca e si trasmette al braccio, mentre i muscoli restano rilassati. Il suo corpo è leggero sotto di me e, mentre mi muovo in modo circolare, le braccia iniziano a distendersi. Le gambe accompagnano armonicamente il movimento delle braccia: quella più lontana da uke si distende e spinge mentre quella più vicina, con un passo diagonale, taglia la strada alla sua ritirata. Non è come uno sgambetto, in cui la gamba si distende fuori dal corpo. Corpo e gamba si spostano all’unisono e, alla fine, è come se mi appoggiassi col fianco ad un muro: il ginocchio non punta verso l’esterno ma ad angolo retto rispetto alla gamba che dà la spinta. Uke, nel frattempo, viene incastrato tra le braccia e le gambe e la rotazione dell’anca, unitamente alla spinta del passo, lo scagliano il più lontano possibile. Il suo corpo non grava su di me durante la spinta. E’ come se, dopo aver raccolto la mia energia nella prima fase della tecnica, ora la lanciassi verso l’esterno, insieme all’avversario.

Un kiai vigoroso mi aiuta ad incrementare questo flusso di energia. Mentre proietto mantengo la testa rivolta dalla parte opposta rispetto al vettore della mia proiezione. Questo mi permette sia di controllare la situazione con metsuke, sia di mantenere la stabilità. La testa, infatti, funziona come un pendolo e controbilancia eventuali forze opposte. Uke tenta di appendersi per portarmi a terra con lui, ma la sua forza defluisce lungo tutto il mio corpo fino a scaricarsi sui piedi. Le braccia, distese davanti a me con un angolo retto su di un piano parallelo al terreno, riparano il mio volto da possibili calci dell’ultimo momento. Ora il corpo del mio avversario, a terra, ostacola gli assalitori provenienti da quel lato, mentre io sono pronto a fronteggiare altri avversari, che stanno per attaccarmi dal lato opposto, rimasto scoperto.

Federico Severin